In questi due mesi di pandemia e conseguente emergenza sanitaria, abbiamo tutti sperimentato un po’ di “reclusione”: l’impossibilità di uscire di casa, il divieto di incontrare un parente o un amico, la sensazione di essere sotto controllo e di dover giustificare anche la necessità di fare la spesa. Dico un po’ perché, al di là dei leciti motivi che determinano tale decisione, nella vera reclusione tutto questo è esasperato e aumentato esponenzialmente. Non è quindi raro che un detenuto faccia continue richieste di colloquio, per la semplice necessità di scambiare quattro parole, parlare, chiedere anche cose che già conosce, pur di tenere vivo il desiderio di vita sociale insita nell’uomo.
Questo è ciò che è accaduto nelle ultime settimane di marzo qui nella colonia penale di Mamone, quando un detenuto, e a seguire altri, ha insistentemente chiesto un confronto con l’area educativa (oggi area giuridico- pedagogica) di questo istituto di pena. Stavolta, però, al di là del bisogno personale, è stato rappresentato un altro motivo che prescindeva da interessi o richieste riguardanti la propria condizione. Ciò che in questi colloqui è stato comunicato ai funzionari giuridico pedagogici (conosciuti con il termine di educatori) era il desiderio di poter fare un gesto di beneficenza verso i poveri del momento. Inizialmente hanno espresso la volontà di rinunciare al cibo di un giorno a settimana garantito dal carcere per donarlo a famiglie bisognose. Per diversi motivi organizzativi questo non è stato possibile, così senza arrendersi hanno maturato la seconda richiesta: fare un’offerta in denaro, donando parte del compenso che ricevono per il lavoro che prestano in carcere. Qui a Mamone si svolgono diverse attività con funzione rieducativa e formativa-professionale e quanto ricevuto non corrisponde sicuramente al valore di uno stipendio ma con quei fondi i detenuti si gestiscono la propria quotidianità e spesso la famiglia.
La proposta fatta dagli ospiti di questo carcere nasce da una lettura di ciò che fuori dalle mura dell’Istituto accadeva chiara e ben definita, così come le modalità di aiuto da loro proposte.
I detenuti sanno che, se non si hanno riferimenti familiari forti, se non c’è un contratto lavorativo certo e regolare e se non si può neanche uscire di casa per recuperare anche solo qualche ora
di lavoro in nero, la gestione della propria famiglia è complicata fino a diventare triste e frustrante.
A Mamone, la gran parte delle persone private della libertà sono straniere, in Italia per cercare “fortune e agi” che nel loro paese di provenienza sono accessibili a pochi o a chi già ha. Sono detenuti che arrivano da situazioni familiari, sociali, istituzionali povere e provate spesso anche da conflitti e prepotenze; sono persone spesso senza strumenti e sicuramente senza potere. Esperienze di vita, queste, che hanno contribuito nella scelta di agiti antisociali e illeciti ma che non hanno eliminato la dignità di sentirsi uomini e parte della storia. Questo periodo di emergenza sanitaria che ha coinvolto tutto il mondo, anche chi apparentemente è fuori dal contesto sociale e dalla comunità, ha permesso di ridefinire gli schemi sociali che spesso si danno per giusti e immutabili. I detenuti scontano una condanna ma non sono fuori dal mondo, a questo appartengono e in questo possono ancora agire e proporre le loro scelte. Il carcere non è perciò un posto fuori dal mondo ma una comunità che appartiene a tutta la comunità con responsabilità reciproche.
I ruoli si sono invertiti: il povero ha messo a disposizione del ricco la propria storia, il desiderio di andare oltre il limite e la necessità di bene che è diritto di ogni uomo e che una condanna alla reclusione non può certo eliminare.
Alessandra Onnis, responsabile dell’area educativa Colonia penale di Mamone