Il servizio non si è mai interrotto, ma ho ritenuto di lasciare a casa tutti gli altri collaboratori: diaconi, accoliti, ministri straordinari. Mi dispiace, ma è opportuno così. Rimaniamo io e suor Anna Maria Soprano, delle Dorotee, che ha scelto liberamente di restare per vocazione e carisma religioso. Tra l’altro, siamo tutti e due infermieri»: don Francesco Barbiero è cappellano all’ospedale all’Angelo, a Mestre.
Con l’emergenza in corso il suo servizio è cambiato, ed è anche diventato più rischioso.
«L’esposizione al rischio è quotidiana. Giro l’ospedale tutti i giorni. Passo nelle zone infette con tutti i dispositivi di protezione». Un po’ alla volta stanno facendo il tampone a tutto il personale. Un controllo utile, ma fino a un certo punto. «Certo, uno magari è negativo fino alla prova tampone di quel giorno, ma può sempre contrarre l’infezione in un momento successivo». Si è cominciato comunque con chi lavora nelle zone più “calde”… Si procede a cerchi concentrici. Suor Maria ed io saremo tra gli ultimi».
Una benedizione da dietro il vetro. La zona “rossa”, dunque… «Dove ci sono “i covid” mi fermo qualche istante, a distanza; delle volte confesso; molto spesso diciamo insieme una preghiera, do una benedizione. Magari il personale mi segnala una situazione critica, più a rischio. In terapia intensiva, invece, devo stare fuori della stanza, perché c’è il vetro che separa… Una preghiera, una benedizione… Provo a intercettare il malato prima che ci entri, sennò poi è tutto più difficile».
Nella quasi totalità dei casi, la visita è apprezzata, la preghiera e la benedizione sono accolte, specialmente dai pazienti covid. «Nel loro sguardo cogli la paura e il dramma della solitudine: non entra nessuno. I più giovani, magari, comunicano all’esterno con i social, ma se uno non li sa usare? Gli anziani spesso non capiscono nemmeno perché sono lì e credono di essere stati abbandonati. È dura. Senza contare i famigliari. Che arrivano col contagocce. Non possono entrare in zona covid. Possono salire un attimo per portare il cambio della biancheria agli operatori e ritirare quella sporca. Per avere notizie dai medici devono telefonare. Ma anche negli altri reparti le visite sono comunque limitate: una sola persona al giorno, e per non più di dieci-quindici minuti. Uno stravolgimento: prima, in geriatria, per esempio, badanti e familiari garantivano assistenza anche 24 ore al giorno».
Ematologia è preclusa. C’è un reparto che a don Francesco è precluso del tutto. «In ematologia non può entrare nessuno. È una decisione che mi addolora molto. I malati di leucemia e linfomi, e i trapiantati ematologici, hanno una degenza molto lunga. Per loro il conforto religioso e sacramentale sarebbe molto importante».
Ci sono tanti aspetti, anche apparentemente secondari, che rendono il lavoro dei sanitari e del cappellano faticoso. «La mascherina e la cuffia ostacolano il riconoscimento anche fra colleghi. Nei reparti covid se uno ha anche tuta, guanti, occhiali, ti domandi: chi è? Un medico? un infermiere? un operatore socio-sanitario? Difficile distinguere le stesse mansioni. Per questo, tengo bene in vista un cartellino di riconoscimento».
Nei reparti ordinari sono diminuiti i pazienti, essendo calati i ricoveri. E il rapporto col paziente è diventato più veloce. «La maschera nasconde la mimica facciale: i pazienti non vedono se sorridi, ecc. L’espressione del volto soprattutto nel primo approccio, ma anche nei successivi, è importante. Pensiamo poi al tono di voce. Che con la mascherina risulta ovattata. Fai fatica a comunicare con anziani che hanno problemi di udito. Non puoi nemmeno avvicinarti tanto. Devi stare attento a cosa tocchi, cosa no, se hai i guanti, se ti sei disinfettato… Non puoi stringere la mano. La sosta nella stanza deve essere per forza breve, specialmente nelle aree dove ci sono infetti».
Si muore da soli. È dura anche per i familiari, perciò. Oltre al problema clinico, c’è la sofferenza affettiva, emotiva. «Il dolore grande è per chi muore in solitudine. E per i parenti che non possono essere presenti. Benedico le salme prima che giungano in obitorio, ma non tutte. Perché non tutti i decessi mi sono segnalati. Allora poi nelle Messe ricordo anche questi defunti».
Il rapporto con chi lavora in ospedale non è tanto più facile. «Da alcuni giorni la situazione è un po’ più serena. All’inizio era particolarmente pesante. Lavoravano sotto stress. L’organizzazione dell’ospedale è stata stravolta completamente. Traslochi, reparti spostati da un’altra parte, nuovo personale di supporto, normative, anche interne, sempre nuove e indicazioni che cambiano velocemente… Tutto questo causa tensione. E, nei reparti, i pazienti, finché non si accerta che sono completamente negativi, sono trattati come positivi.
Chi lavora in ospedale è preoccupato di portare a casa il “problema”.
Molti si chiedono “perché”? «Nascono domande sul perché di questa situazione. Alcuni infermieri cattolici e “praticanti” sono andati in crisi professionale e di fede. La presenza mia e della suora è di sostegno e supporto anche per loro».
Lavorare in ospedale è una missione che segna profondamente anche l’esperienza di fede di un cappellano. «Ho anch’io i miei momenti di sconforto e di domande. Ma tener vivo a livello personale e comunitario un ritmo di preghiera ordinato mi aiuta ad affrontare ogni giornata. Ogni giorno mi trovo a rinnovare il mio sì e dire grazie al Signore perché anche oggi ci sono e sto bene».
Il tempo per riposare è poco… «Il mio riposo è notturno», sorride don Francesco. «Stacco quel momento che vengo a casa per mangiare e la sera. Ma resto reperibile sempre».
C’è un ufficio dove poter parlare con chi ne sente il bisogno. «In realtà, la stanza è molto piccola e funge anche da spogliatoio, luogo per colloqui e confessionale. Ma ci sto molto poco. Salvo che ci si accordi di vedersi lì».
Non mancano comunque concreti segni di speranza. «Ti chiedono preghiere, anche medici e infermieri, o di poter ricevere la comunione, prima di cominciare o terminare il turno, e qualche volta anche nelle pause durante il servizio. Sanno che celebro regolarmente la messa… La vita liturgica della cappellina è sempre normale, col rispetto di tutte le distanze e precauzioni del caso».
Un altro bel segno delle ultime settimane per don Francesco è che parecchie persone lo hanno cercato. «Mi mandano un messaggio, fanno una telefonata. Anche diversi confratelli: “Come stai?”, “Ciao, come va?”. Sono rimasto stupito di questa vicinanza umana, affettiva e spirituale».
di Giovanni Carnio