Andrea, partiamo dall’inizio: quando hai iniziato a stare male?
«Il 13 marzo ho cominciato ad avere una tosse strana e un po’ di febbre, insieme con i primi sintomi del Covid, tra cui la perdita di gusto e olfatto. Sono andato avanti con la tachipirina, finché il 24 marzo, al mattino, mi sono sentito il fiato corto e il cuore che batteva all’impazzata. Non riuscivo a fare neanche due passi per andare in bagno, mi accasciavo subito… Mia moglie ha chiamato il numero di emergenza Covid. La Croce verde è arrivata subito, e i volontari con grande umanità e gentilezza mi hanno portato in ospedale. Ma prima che si chiudesse il portellone dell’ambulanza, con un gesto della mano e la mascherina sul volto ho salutato mia moglie e i miei figli. Anche loro, come me, pensavano che forse non ci saremmo più rivisti».
Arrivato in ospedale?
«Al pronto soccorso Covid la prima infermiera che mi viene incontro, “bardata” con una tuta da astronauta, mi dice: “Ma tu sei il direttore della Voce alessandrina”. Era Lavinia Testa, sorella di Carlotta (responsabile della Pastorale giovanile diocesana, ndr). Una coincidenza?».
Che cosa è successo dopo?
«Il pronto soccorso in quel periodo era un luogo di dolore e sofferenza che non si può neanche immaginare. Con persone di tutte le età, anche più giovani di me, e tantissimi anziani che sembrava dovessero morire da un momento all’altro. Sono stato visitato dalla dottoressa Garrè, poi mi hanno fatto tampone, prelievi e lastre. Era Covid, senza alcun dubbio».
Tu cosa hai pensato?
«Fino a quel momento non avevo capito la portata del fenomeno, e chi non l’ha vissuto sulla propria pelle non lo capirà mai. La sera mi hanno ricoverato nel reparto di Neurochirurgia appena trasformato in reparto Covid. Stavo male, mi hanno subito messo una maschera d’ossigeno e mi hanno guardato: vedevo solo gli occhi di medici e infermieri, coglievo i loro pensieri. Mi è crollato il mondo addosso: tutto quello che prima mi sembrava importante in quel momento si rivelava inutile. Ero completamente svuotato, pensavo: “Eccoci, è la mia ora”. E mi chiedevo: “Signore, perché mi hai abbandonato?”. Lui non rispondeva. Mi trovavo in una stanza d’ospedale, da solo, a guardare il soffitto sopra di me e il nulla dentro. “Signore, con tutto quello che ho fatto per Te, è questa la tua riconoscenza?”».
E la tua fede?
«Sono entrato in ospedale con una fede e sono uscito con un’altra, completamente diversa. Sai, un conto è parlarne, un conto è sperimentarla in una prova di questo genere. Si è proprio ribaltata la prospettiva: non ero più io a fare qualcosa per Lui, come presuntuosamente credevo, ma Lui che stava facendo tutto per me, dalla malattia alla guarigione. Tante volte non riuscivo neanche a dire l’Ave Maria, perché il Covid mi rubava la memoria, non mi ricordavo le parole. Eppure, ringrazio il Signore di avermi fatto vivere quei 31 giorni in ospedale, anche i momenti più brutti, perché ho capito cosa vuol dire provare la Sua compagnia. E alla fine ho visto anche il miracolo di una guarigione inaspettata».
Per te quindi è stato un miracolo?
«Sì, assolutamente. Sono guarito in tre giorni. I miei polmoni, che si trovavano in una situazione non felice, ora sono nuovi. Come se Qualcuno fosse passato a sostituirmeli… Il valore di riferimento della salute dei polmoni, il cosiddetto P/F (è il rapporto che indica la qualità della respirazione alveolare, ndr), è passato da 40 del giorno del ricovero a 400 il 20 aprile, quando i dottori mi hanno fatto fare una Tac. Cercavano un embolo, e invece hanno trovato una grande sorpresa. Adesso il mio P/F è a 452: sono i polmoni di un ragazzino! Il Signore quando passa ti porta qualcosa di nuovo, non ripara mai con lo scotch. Questo è un miracolo… Forse non sarà mai “catalogato” in questo modo, ma non importa. Il miracolo è tutto quello che ci porta a pensare a Dio. E a convertirci».
La reazione dei medici?
«La dottoressa Omodeo, che mi ha curato con grande bravura e umanità, dopo la Tac mi ha detto: “I tuoi polmoni sono nuovi… togliti l’ossigeno”. E ancora: “Se reggi così, tra tre giorni te ne vai a casa”. Così è stato: il 23 aprile mi hanno dimesso».
C’è stato un momento in cui ti sei sentito rinascere?
«Sì, ed è stato il sabato prima della Domenica delle Palme, quando è venuto a trovarmi il cappellano dell’ospedale, don Stefano Tessaglia, che ancora oggi non so come ringraziare. Mi porta la Comunione. Avevo il Cpap, il casco, che toglievo solo per mangiare, e allora l’ho messa in un fazzolettino di carta e l’ho conservata. “Avrei anche l’Unzione degli infermi”, mi dice. Gli chiedo di darmela subito. Avevo l’umore a terra, non volevo neanche più vivere. Un quarto d’ora dopo l’Unzione, mi tolgono il casco per la cena e mangio il Corpo di Cristo. Mi sento rinvigorito nell’animo e riparto: l’Eucaristia e l’Unzione sono state l’inizio della mia rinascita. Poi arriva la Pasqua, sempre in ospedale: è stata la più bella della mia vita. Non avevo nulla, ma avevo tutto: c’era il Signore con me. Concretamente, fisicamente».
Nel concreto, come hai sentito quella vicinanza?
«Attraverso i compagni di stanza, infermieri, medici e operatori sanitari; i miei familiari e gli amici, un sostegno fortissimo. Per me hanno pregato in tutto il mondo, dalla Cina fino ai monasteri di suore di clausura. Poi mi hanno accompagnato il Papa, il Vescovo, Suor Maria Grazia, madre superiora delle Figlie di San Giuseppe di Genova… vedevo sul cellulare lo sguardo di mia moglie e dei miei figli: uno sguardo prima sofferente, e poi via via sempre più lieto. È stato un cammino di fede anche per loro. In quei giorni non potevo fare nulla, se non accorgermi di questa letizia infinita che mi trovavo addosso».
E adesso?
«Adesso non voglio perdere quello che ho visto. Mi sono reso conto di che cos’è veramente il peccato: è la dimenticanza, la distrazione. Quando racconto la mia storia sono “costretto” a dimostrare con la mia esperienza che l’iniziativa umana costruisce poco o nulla, mentre quella di Dio risana e rende tutto nuovo. Un altro peccato è credere che questo livello di coscienza dipenda dalle mie capacità. Ma se Lui mi ha fatto fare una strada così “forte” è perché vuole qualcosa da me».
Che cosa?
«All’inizio pensavo che volesse la mia vita. Oggi invece credo che voglia farmi testimoniare, per come sono capace, che la sua Presenza può farci vivere alla grande, al massimo del godimento, in qualunque situazione, anche nella più difficile. La mia libertà non è iniziata quando sono tornato a casa; la mia libertà era già possibile lì, in ospedale, in un modo diverso, lieto. Il mio mese di ricovero è stato paradigmatico: il Signore mi ha dato più di quello che Gli ho chiesto. E sta continuando a farlo».
di Alessandro Venticinque