La preghiera non è un’attività disincarnata dello spirito, un distillato della mente o del cuore; ma la relazione dell’uomo vivo con il Dio vivo. Perciò si porta dietro tutto ciò che avviene, tutti i pensieri, tutte le pene, le speranze e le gioie, le croci e le disdette della vita. La preghiera è la fede personale che “si dice” nelle coordinate culturali e storiche in cui ci troviamo a vivere, alla luce della presenza benedetta e fedele della Trinità santa.
Perciò la preghiera non è immutabile, ma cangiante, variegata, complicata (cum-plicare) come è complicata la vita stessa. In questo tempo caratterizzato dall’epidemia del Covid-19 e dai provvedimenti necessari alla sua prevenzione, la preghiera “accusa il colpo”: si ristruttura ma non viene meno. Anzi…
Prima di stendere queste righe, ho voluto raccogliere le testimonianze di alcune persone. Ho chiesto alle catechiste, ad alcuni volontari, a persone che normalmente frequentano il duomo di Legnago, di lasciarmi mettere il naso nella loro preghiera. Ne sono risultate alcune coordinate fondamentali, le coordinate della preghiera in tempo di crisi e di fragilità: provo a dirle, raccogliendole sotto alcune “parole d’ordine” che metto in fila nelle righe seguenti.
Limite
È la prima parola d’ordine e condensa l’esperienza co-mune a tutti e il grumo di sentimenti che scopriamo dentro di noi quando dob-biamo infine constatare che la fettina di storia sulla quale pensavamo di avere spazio libero di manovra, improvvisamente ci scappa di mano. La libertà di muo-verci, di programmare i giorni e le settimane, l’auto-nomia di cui ciascuno gode si restringono e vengono limitate da divieti e prescrizioni.
Il virus ha svuotate le piazze e i luoghi pubblici e noi ci sentiamo in balìa di un nemico invisibile che non sappiamo, né al momento possiamo, combattere. L’homo faber, che forgia il proprio destino e costruisce il suo futuro, improvvisamente si scopre fragile. Dipendiamo dall’Amuchina, dalle autocertificazioni, dalla “distanza di sicurezza” e da molto altro ancora.
E qui si apre una fessura interessante per la vita spirituale, perché torniamo a capire che dipendere da… non è uno scacco matto alla libertà umana, ma la spia di una trascendenza. Mai come in questo tempo i messaggini che ci scambiamo inflazionano l’icona delle mani giunte nel gesto della preghiera; mai come ora rivolgiamo gli uni agli altri il franco ed esplicito appello a pregare. E nel fare questo non ci vergogniamo affatto; non pensiamo che sono discorsi da preti…
Affiora robusta, invece, la percezione che possiamo rivolgere il cuore e la vita a Colui che ha in mano la sorte del mondo, e lo facciamo perché mai come ora sentiamo la bontà di Dio, sentiamo con sicurezza che possiamo affidarci alla sua amorevole cura; una mamma-catechista scrive dei suoi bambini: “Stringono forte gli occhi, mettono le mani giunte, insegnano a noi adulti la preghiera vera del cuore; sono sicuri che Dio ascolterà!”.
Paradossalmente, il limite e l’esperienza di esso ci spingono a sfondare l’orizzonte fenomenico del mondo e a sollevare il velo sul Mistero buono di Dio. Tutto questo secondo le forme semplici (sine-plica) di una grammatica popolare che non va disprezzata, né guardata con sufficienza: in duomo abbiamo “recuperato” dalla soffitta una statua di San Rocco; diverse persone che escono per “giustificati motivi”, approfittano del giro per mettere la testa in chiesa e non far mancare al “Santo della peste” (la presenza di Dio nel buio momento di un’epidemia) un lumino e una preghiera.
Silenzio
Domina sui nostri centri abitati un silenzio che forse capita di sentire solo al mattino del 1° gennaio. È un silenzio che sgomenta i più, abituati ai noti e familiari rumori della vita quotidiana. Mancano le automobili, le voci della gente sulla piazza, il motorino che sfreccia sulla strada: in centro a Legnago in questi giorni si possono persino sentire gli arabeschi canori dei merli che “fanno primavera” sull’argine. La tentazione più comune è quella di riempire il silenzio con la tivù e di perdersi nei meandri del piccolo-grande schermo.
Il silenzio, però, interroga molti con la sua “innaturalità”, apre la porta alla riflessione, fa nascere qualche domanda e in generale ci fa ritornare presso noi stessi. Come lo stop anche commerciale di questi giorni ha fatto calare smog e polveri e l’aria è tornata tersa sopra le grandi città e l’acqua limpida nei canali di Venezia, così il silenzio ci dona una trasparenza interiore dove non è difficile riscoprire il volto di Dio.
Il silenzio di questi giorni approfondisce la preghiera, come scrive Cristina: “Questo tempo ci fa scoprire che Ciò che veramente conta è Gesù: possiamo perdere tutto tranne Lui”. E anche Giovanni: “Riscopriamo il valore della preghiera come incontro con una voce dolce, che illumina e dona significato alle nostre giornate, al di sopra della voce continua dei telefoni e dei mezzi di informazione”. Ci stiamo accorgendo che quando le cose fanno silenzio, il silenzio si riempie di Dio.
Comunità
La grande nostalgia che sentono, portano e patiscono in cuor loro tutti i credenti. Tutte le testimonianze che mi sono arrivate, sottolineano la fatica e il dispiacere, talvolta l’acuta mancanza, dell’appuntamento domenicale. Stiamo riscoprendo che la speranza è una virtù comunitaria, che si nutre della forza della fede condivisa e confessata insieme, degli esempi buoni che ci diamo gli uni gli altri.
Il momento liturgico, che così spesso abbiamo etichettato come routine, che abbiamo magari sopportato perché anonimo, freddo, stereotipato, afflitto magari dalle omelie del parroco (!), proprio di quel momento ora avvertiamo la forza, la necessità, l’insostituibilità. Scrive Lucio: “Ci troviamo un po’ spaesati anche perché ci mancano gli incontri con i nostri preti e la comunità parrocchiale”.
È una nostalgia benedetta, che non permette rassegnazioni: “Si cerca di tenerla viva usando tutti i sistemi di comunicazione in nostro possesso” (è sempre Lucio). E così il senso di comunità viaggia in rete: messaggini, Whatsapp, Facebook e gli altri social diventano la ragnatela dove corrono saluti, senso di appartenenza e pure gli avvisi parrocchiali. Attraverso i social ci scambiamo preghiere, ci facciamo forza, ci invitiamo reciprocamente ad uno sguardo e a un atteggiamento di fede…
Molti seguono le celebrazioni liturgiche feriali e festive su questo o quel canale, momenti di preghiera, il Rosario. Una signora scrive: “Il 10 marzo, passando a caso da un canale all’altro cercando un rifugio dai telegiornali, più simili a bollettini di guerra di questi tempi, mi sono fermata su un canale in cui si recitava il Rosario, e l’ho ascoltato, e ho pregato, con il cuore, con fiducia, come da anni non sentivo”.
Casa
Impossibilitati ad uscire, sospese le Messe, abbiamo riscoperto che “né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre”. Il Padre si adora in spirito e verità, con il culto esistenziale, quello cioè che fa dell’esistenza concreta un’offerta vivente, santa e graditaa Dio. Abbiamo riscoperto le nostre case come “luoghi santi”, piccole chiese in cui la famiglia celebra la fede e prega. Molti pregano con il Vangelo, si prendono del tempo per meditarlo un po’; il Rosario diventa un momento comunitario.
Anche gli strumenti semplici che arrivano alle famiglie dalla parrocchia via Whatsapp, diventano l’occasione per un momento di preghiera, come scrive una mamma: “Ho cercato di coinvolgere i miei due figli nella preghiera, con loro non è sempre facile; ma ho visto che alla fine hanno apprezzato”.
Non potendo raggiungere il duomo per lasciare una preghiera sul librone che sta all’entrata, davanti al grande Crocifisso, ne abbiamo aperto uno on line: chi vuole, può visitare da casa il sito della parrocchia e condividere un’intenzione, una preghiera, un ricordo. Scrivere da casa per “fare casa”.
Paura
C’è. E tanta: nella parte anziana della comunità, nel cuore dei genitori in apprensione per i figli, in tutti noi quando, giorno dopo giorno, i dati delle 18 aggiornano il grafico che sale imperterrito verso un picco purtroppo non ancora raggiunto. Ci affidiamo reciprocamente in una preghiera di intercessione che chiede a Dio di custodire tutti: i familiari, le persone della nostra comunità, i medici e gli operatori sanitari, le persone che vivono in zone duramente colpite dal virus, le aziende insidiate dalla crisi determinata dalle ripercussioni economiche dell’epidemia. La paura, purtroppo, eclissa altri drammi, che in questo momento stanno consumandosi nel silenzio: come i patimenti che debbono sopportare i profughi siriani, ormai stremati da dieci anni di guerra.
In conclusione
Ho provato a buttar giù, in ordine sparso, alcune riflessioni, sicuramente incomplete. Vorrei concludere con un sentore che mi sembra di percepire nelle persone che riesco a vedere o a sentire: in tutti c’è la coscienza che quanto stiamo vivendo non è solo un fatto sanitario, ma investe anche la nostra visione del mondo. Preghiamo allora Dio che questi giorni imprimano più profondamente in noi il senso di una comune appartenenza; ci aiutino a diventare un po’ più umili e per conseguenza anche un po’ più saggi.
Don Diego Righetti, parroco di Legnago