Un numero de “La Voce delle Marche”, dedicato alla Pastorale della Salute, in un tempo tanto complicato e tribolato come quello che si sta vivendo, non può dirsi completo senza dare voce ad un cappellano dell’ospedale e senza aver ascoltato la sua esperienza di missione al servizio dei malati.
Ringraziamo don Giancarlo Tomassini, cappellano dell’Ospedale Civile e della casa di cura “Villa dei Pini” a Civitanova Marche, perché si è reso disponibile a raccontarci il suo ministero e, soprattutto, perché ci aiuta a conoscere più da vicino un mondo e una pastorale d’ambiente che, come chiesa, guardiamo a distanza e, talora, con scarsa attenzione.
Gli chiediamo, innanzitutto, una sua testimonianza di quanto sta accadendo in queste ore all’Ospedale di Civitanova Marche. Ci fa capire che la realtà è ancora più difficile di quanto i giornalisti possano riferire. Dice questo senza riuscire a nascondere l’emozione per le situazioni di grave disagio in cui lavorano medici e infermieri: stanchi, esposti al contagio, preoccupati per i familiari. Parla del sovrapporsi dell’emergenza ad una situazione già ordinariamente grave e pesante, con tanti pazienti, affetti da altre malattie, in attesa di esami, interventi, cure, terapie. Racconta di familiari che non sempre capiscono e accettano le regole dettate dall’emergenza di questi giorni.
Prima di tutto, don Giancarlo si sofferma a misurare l’enorme distanza che separa le nostre comunità cristiane dalle problematiche della sanità italiana e mi invita ad essere più attento e informato, perché, anche a partire da questa breve intervista, ci si possa rendere conto di una situazione in cui tutti possono imbattersi prima o poi nella vita. La sua testimonianza richiama molto da vicino, per il contenuto e la passione, l’intervento di don Arice al Convegno della Pastorale della Salute di sabato 8 febbraio. Come in quella mattina, anche stasera mi sento scosso e spinto ad una maggiore concretezza da parte della chiesa, perché si impegni di più in difesa della povera gente che ha bisogno di farsi curare. Don Arice mi disse, a chiare lettere, che i fervorini del biblista non servono a nulla se, poi, non si va al concreto e non si entra dentro la sanità con cognizione di causa. La stessa forza profetica la colgo in don Giancarlo, mentre parlo con lui.
Una domanda importante tocca le prerogative di un buon cappellano. Mi viene risposto che sono quelle che un buon parroco deve avere con la gente. Su tre, tuttavia, occorre soffermarsi. Per prima cosa, il senso di umanità permette di vedere nel malato non un numero, ma una persona. Qualsiasi malato, dal giovane ricoverato in otorino per un setto nasale all’ammalato terminale che nel reparto di oncologia. Poi la presenza discreta, silenziosa, fatta di un sorriso, un saluto, una battuta, di parole di incoraggiamento. Il malato sa che il cappellano non ha una soluzione alla sua patologia, ma è contento perché la chiesa prega per lui, si sente più tranquillo e meno solo. Essenziale è la disponibilità all’ascolto. Il cappellano non è un distributore di ostie. Spesso si ferma ad ascoltare e a consolare. Tocca con mano e vede ogni giorno la passione e la morte di Gesù in croce. Ad esempio, nel reparto di psichiatria, dove è possibile andare 3 volte alla settimana, su 12 pazienti la metà circa sono giovani dai 20 ai 35-40 anni. Non chiedono l’eucarestia. A volte qualcuno desidera confessarsi, ma la maggior parte vuole che si ascoltino storie personali o famigliari molto sofferte.
Don Giancarlo ci tiene a parlare al plurale, allargando la sua missione ai collaboratori. Tra questi, don Giannelia Russi, il diacono Massimo e i ministri dell’eucarestia. Don Giancarlo si pone il problema del futuro, quando non sarà più un prete a stare in corsia. Per questo, a Civitanova, ha spinto moltissimo per la formazione di nuovi ministri dell’eucarestia e della consolazione. Io stesso sono stato invitato a tenere una relazione all’ultimo corso, al quale hanno preso parte circa 100 persone.
Ho chiesto poi di poter conoscere più da vicino la giornata nei due ospedali. Don Giancarlo si reca a Villa Pini al mattino. Qui è inquadrato come semplice volontario. Di pomeriggio dà inizio al suo servizio all’Ospedale Civile. Qui deve osservare gli accordi scritti nella convenzione tra Asur 3 e la nostra Diocesi, in base alla quale percepisce la sua remunerazione, equivalente a quella di un parroco della sua età. Don Giancarlo abita presso la parrocchia di Civitanova Alta, dove vive insieme ad altri preti.
Infine, è stato interessante capire il passaggio da parroco a cappellano dell’ospedale. All’inizio l’impatto è stato molto duro, soprattutto di fronte a certe situazioni difficili o tragiche, come la morte di una persona giovane o per leucemia, o per un incidente stradale oppure per un suicidio. Ogni giorno si fanno i conti con situazioni difficili e drammatiche. Qualche giorno fa, un giovane di 35 anni si è tolto la vita gettandosi sotto il treno. In parrocchia ci sono più gratificazioni e circostanze liete. Il pane delle lacrime nutre la vita del cappellano.
Nessuno solitamente chiama un parroco dalle 23.30 alle 8 di mattino. Per un cappellano dell’ospedale, essere reperibile h24 vuol dire che il cellulare o il fisso potrebbero suonare alle 24, alle 3 o alle 6 del mattino. Questo non succede spesso, però può capitare.
Arriva il momento di lasciare don Giancarlo andare a riposare. Se le nostre parrocchie in questo periodo sono chiuse, a causa dell’emergenza, e noi parroci siamo un po’ disoccupati nel nostro ministero ordinario, gli ospedali domani aspettano don Giancarlo e richiedono più che mai la sua presenza. Il pensiero, dopo che ci siamo salutati, va alla celebre espressione di Papa Francesco sulla chiesa, chiamata ad autocomprendersi come un ospedale da campo. Don Giancarlo avvalora questa espressione e la sperimenta tutti i giorni.
di Andrea Andreozzi