Storicamente il punto di riferimento per le persone in difficoltà che gravitano nella zona sud della città di Reggio Calabria. È la mensa della Chiesa del Soccorso guidata da don Giorgio Costantino. Anche in piena emergenza Coronavirus la chiamata è stata più forte della paura. I fornelli non si sono mai spenti, anzi, se possibile, hanno continuato con più intensità per rispondere ad un appello che si faceva ogni giorno più grande. E a dire il vero quello non è solo un punto di ristoro dove trovare un piatto caldo. Per molti è anche il posto dove farsi una doccia calda, recuperare un po’ di vestiario, chiedere aiuto quale che sia, magari anche solo sfogarsi per sentirsi ascoltati da qualcuno. Meno soli, meno tristi, meno invisibili.
Ai tempi del Covid–19 tutto è cambiato nel giro di una notte.
Impossibile offrire il servizio docce così come nelle altre strutture, mentre tutto il possibile diventava “telematico”. Così i volontari hanno continuato a chiamare al cellulare quanti potevano immaginare essere nelle difficoltà più grandi. Per qualcuno, soprattutto gli anziani, un passaggio a domicilio anche se a distanza rigorosamente con guanti e mascherina per portare qualche maglia da mettere o le medicine da assumere. «Nessuno escluso mai».
Di certo il tempo che è stato tolto ai sevizi di prossimità è stato riversato in pieno se non addirittura triplicato tra dispensa e cucina. I volontari di sempre, insieme a qualche aiuto arrivato complice il lavoro fermo, ogni giorno da lunedì a sabato hanno assicurato la mensa da asporto a tanti che nelle settimane di lockdown si sono ritrovati senza lavoro, senza poter chiedere aiuto in giro, impossibilitati ad uscire di casa. Tante famiglie straniere, altrettante quelle italiane.
Sono le sette del mattino quando la cucina della mensa della Chiesa del Soccorso, apre per dare la prima colazione. Biscotti, latte, thè, qualche merendina. La stanza del refettorio vuota lascia spazio ad un banchetto messo di traverso sulla porta che da sull’esterno per la consegna “guanto a guanto”. Di solito erano venticinque le famiglie che gravitavano fino ad inizio anno, da metà marzo sono praticamente raddoppiate. A queste vanno aggiunti i tanti anziani cui è stata assicurata la consegna a domicilio dei pasti insieme a quei nuclei italiani che per vergogna davanti alla porta hanno fatto fatica ad arrivare direttamente. Due pentoloni di maccheroni, sofficini e un panino imbottito, la cotoletta, le merendine, la frutta.
In un giorno di aprile di piena pandemia, la Provvidenza, spiega una volontaria, ha previsto anche la Coca–Cola per i bambini. Sono tanti quelli che si sono stretti attorno al centro nei giorni della grande paura, portando ciascuno quello che poteva. Un pacco di pasta, riso, biscotti. Tutto materiale che nel giro di qualche ora veniva consegnato direttamente in una busta a chi non poteva arrivare fino a li.
Alle 12 la fila non è come sempre, ordinata, ma sparsa nel piazzale tra le auto in attesa che il portone si apra per la seconda volta della giornata. Quasi per tutti l’unica occasione di arrangiare davvero qualcosa fino all’indomani. Un controllo scrupoloso perché tutti abbiano in parti uguali a seconda della destinazione: singoli, famiglie, nuclei con bambini e anziani.
I volontari anche se dietro la mascherina fanno costantemente sentire il calore di un sorriso che supera la paura di essere lì invece che a casa, di essere comunque a contatto con altri per il benessere di una comunità fantasma che spesso al posto di una porta e un letto, ha un cancello sfondato e un giaciglio tra le mura di una struttura abbandonata poco distante, come confini per ripararsi dall’emergenza.
Una chiamata più grande della paura. Una risposta che si fa missione quotidiana. Don Giorgio Costantino da una mano sin dal mattino presto. Il suo sorriso non manca mai di rincuorare i volontari, quanti sono dietro la porta aspettando quel cigolio che assicurerà la sopravvivenza.